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Forza foreste

Dal periodico L'Espresso.

di Letizia Gabaglio Per combattere l'anidride carbonica lo strumento più potente è il rimboschimento su larga scala. Un'utopia? No. Diversi esperimenti pilota dal Sudamerica all'Asia mostrano che è possibile. Ecco come

Nel 1967, Daniel Ludwig ha comprato 16 mila chilometri quadrati di foresta pluviale brasiliana, un'area ampia quanto metà Belgio. Il miliardario americano aveva in mente di coltivare intensivamente Eucaliptus da cui ricavare carta, secondo lui destinata a diventare sempre più richiesta. Così ha costruito una nuova città nel mezzo della foresta e disboscato 1.300 chilometri quadrati di alberi. Ma il business non è mai decollato. Uno spreco? Forse no.

Perché oggi gran parte dell'area disboscata da Ludwig è ricoperta di nuova foresta ed è diventata un laboratorio a cielo aperto dove biologi ed etologi possono studiare che cosa accade se si ripiantano le foreste distrutte. E oggi arrivano sulla bibbia della scienza americana, 'Science', che ha dedicato al futuro delle foreste un numero speciale, i risultati dell'analisi più ampia e rigorosa mai svolta sulla biodiversità di una foresta secondaria, cresciuta cioè sulle ceneri di quella primaria. La firma Carlos Peres della University of East Anglia a Norwich, in Inghilterra, che ha una buona notizia: la vegetazione è cresciuta rigogliosa e la decomposizione del fogliame a terra ha garantito il ripristino del suolo, le cui caratteristiche sono oggi simili a quelle della foresta originaria. Ma anche molti dubbi, perché soltanto il 40 per cento delle specie di uccelli presenti prima del disboscamento è ritornato dove era un tempo, e anche gli anfibi sono scarsi, così come gli alberi con quelle liane tipiche delle foreste pluviali. In Brasile, la natura ha fatto il suo corso e la foresta è risorta, ma molto diversa da quella che era.

Così come molto diverse da com'erano sono oggi le foreste delle montagne dello Hengduan in Cina , a più di 1.500 chilometri da Pechino, nello Sichuan, la zona colpita dal sisma dello scorso maggio. Prima dell'ultimo terremoto, nel 1981 e nel 1998, la regione era stata devastata da due grandi inondazioni che avevano messo in ginocchio la foresta con le sue più di 3.500 specie endemiche, tra cui i panda giganti. L'anno dopo, il 1999, il governo cinese decise di mettere al bando il disboscamento. Una mossa che, sebbene già il 35-40 per cento della foresta naturale fosse ormai persa e in alcune aree più dell'85 per cento degli alberi fosse stata tagliata, ha dato i suoi frutti, come spiega un articolo apparso sui 'Proceedings of the National Academy of Science'. Perché il governo ha deciso di ripiantare più di 143mila ettari pianificando il nuovo paesaggio e piantando nei terreni devastati diverse specie autoctone e non. Mentre altri 2 milioni e mezzo di alberi hanno trovato dimora in tutta la nazione.

Due storie parallele che raccontano diverse strategie - la riforestazione spontanea e quella guidata - messe in atto a livello globale . Entrambe con buoni risultati, come valuta Robin L. Chazdon, del dipartimento di ecologia e biologia evoluzionistica all'Università del Connecticut, su 'Science': "Di fatto, a oggi la perdita netta di foreste è calata: sebbene il tasso di deforestazione rimanga alto, 13 milioni di ettari l'anno, il manto forestale di 18 nazioni ha iniziato ad aumentare. Le foreste naturali sono in crescita in Bhutan, a Cuba, in Gambia, in Portorico e Vietnam". A cui si devono aggiungere le foreste europee, la cui ampiezza è aumentata negli ultimi 10 anni, e quelle dell'America del Nord. Buone notizie, dunque. Perché, con tutte le perplessità degli scienziati su cosa accade davvero nei terreni riforestati che poco assomigliano a quelli originari, rimane il fatto che la riforestazione è uno degli strumenti migliori per cercare di tamponare la devastazione dei cosiddetti polmoni verdi del nostro pianeta. Lo spiega bene Lester R. Brown, fondatore e presidente dell'Earth Policy Institute, nel suo ultimo libro 'Piano B3.0.

Mobilitarsi per salvare la civiltà', in cui spiega che esiste una relazione fra chilometri di foresta e clima a livello globale. Tanto che l'azienda svedese Vattenfall ha deciso di elaborare un piano di fattibilità per il ripristino delle aree degradate. Gli svedesi hanno analizzato che ci sono 1860 milioni di ettari di terreni degradati nel mondo, aree che un tempo ospitavano foreste, terreni agricoli o pascoli, la metà dei quali ha una discreta possibilità di essere recuperata. Circa 840 milioni di ettari si trovano nelle regioni tropicali, dove la riforestazione significherebbe tassi di assorbimento dell'anidride carbonica molto alti. Ogni nuovo albero ai tropici toglie dall'atmosfera in media 50 chilogrammi di anidride carbonica all'anno, mentre nelle regioni temperate ne assorbe solamente 13. I conti degli svedesi sono complessi, ma il risultato è che, riforestando, con circa 200 miliardi di dollari si potrebbe abbattere la CO2 a livelli di non dannosità. "Distribuito in 10 anni significherebbe un investimento di 20 miliardi di dollari all'anno, che dovrebbero essere finanziati dai paesi più industrializzati, responsabili della maggioranza delle emissioni. Per fare un confronto", scrive Brown: "È una cifra inferiore a quella che spende l'esercito Usa in due mesi in Iraq".

Ma il dubbio sollevato dagli scienziati all'opera in Brasile sulla qualità di biodiversità che andiamo a creare quando riforestiamo non sembra solo una questione di lana caprina. E a riprenderlo sono gli ambientalisti di Greenpeace. Spiega Chiara Campione, responsabile del programma foreste di Greenpeace Italia: "Molte volte si tende a riforestare con una sola specie arborea aree precedentemente occupate da foreste naturali. In quel caso se è vero che in parte si recupera la biomassa, non si ripristina la biodiversità. Ci sono stati anche casi in cui, proprio in nome della riforestazione, sono stati fatti errori madornali utilizzando, per esempio, specie non autoctone, a volte addirittura invasive. Ma dove vengono prese misure per limitare gli errori la riforestazione non solo aiuta l'ambiente ma crea nuove forme di sviluppo locale, sostenibile e partecipato".

È successo in Costa Rica , dove nel 1993 è partito un programma di ripristino di alcuni terreni da pascolo abbandonati. Dopo 15 anni, come afferma un articolo apparso su 'Ecological Restoration' lo scorso marzo, gli alberi nativi piantati hanno formato un ecosistema dove hanno trovato dimora 356 specie primitive, un passo importante verso la ricostituzione di quella ricchezza tipica della foresta tropicale. C'è poi il caso della Corea del Sud dove, dal 1960, è iniziato un grande programma di riforestazione che ha visto il coinvolgimento di centinaia di migliaia di persone. Risultato: oggi il 65 per cento del paese è ricoperto di foreste, per un totale di sei milioni di ettari.

"La restoration ecology è diventata ormai una parte fondamentale della strategia di salvaguardia della biodiversità terrestre, ma si tratta di una disciplina complessa", spiega Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia: "La foresta espleta numerosi servizi e quando pensiamo di ricostituirla dobbiamo valutarli tutti". Una volta individuata una zona da riforestare, infatti, va stimato l'impatto che la disgregazione dell'ecosistema ha avuto su tutte le specie, umani compresi, per poi cercare di elaborare una strategia il più possibile complessiva. Senza dimenticare le aree che circondano quella da salvare. Per non costruire cattedrali nel deserto, creare un ecosistema con aree di contiguità che le specie possano attraversare nei diversi momenti dell'anno. Per questo è nata la Society for Ecological Restoration, un gruppo di esperti internazionali che ha redatto le linee guida per un corretto recupero degli ecosistemi. E chiama in causa le popolazioni indigene.

Perché la chiave di volta della complessa operazione di ricreare un ecosistema sono proprio gli indigeni, la gente che vive nell'area e che conserva nelle proprie usanze le pratiche che meglio preservano il territorio. Dall'incontro fra le loro conoscenze e quelle degli esperti internazionali nascono gli esempi meglio riusciti di restoration ecology. C'è però un problema: come si monetizza il lavoro che le popolazioni eseguono per migliorare o mantenere intatto un determinato ecosistema? Chi stabilisce il prezzo? Qual è l'unità di misura? Se la cattura dell'anidride carbonica operata dalle foreste o, in generale, da ecosistemi integri è un prodotto di valore, allora bisognerà bene che ci sia qualcuno pronto a pagare per averlo.

La United Nations Framework Convention on Climate Change ha proposto l'introduzione di un meccanismo finanziario che premi le nazioni in via di sviluppo che si impegneranno a non abbattere gli alberi o a ripristinare gli ecosistemi. Si chiama Redd e sarà testato in una versione pilota fino al 2012. "Ma non aiuterà tutte le foreste allo stesso modo", spiegano Lera Miles, del World Conservation Monitoring Centre dell'United Nations Environmental Programme, e Valerie Kapos, del dipartimento di Zoologia dell'Università di Cambridge, su 'Science'. Non è detto infatti che le aree forestali con più alto impatto di assorbimento di anidride carbonica siano anche quelle dove è maggiore la biodiversità o dove risiedano laghi o fiumi importanti per il rifornimento di acque alle popolazioni indigene. Quindi si profila un nuovo eco-dilemma: riforestare per togliere CO2 dall'atmosfera o per salvare la biodiversità?

(28 luglio 2008) © 1999-2008   Gruppo Editoriale L'Espresso Spa

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